Di quei giorni ricordo il buio, il silenzio, il freddo, tanto freddo. I vestitini indossati uno sopra all’altro, che quasi non riuscivo a muovermi. Seduta al tavolo di cucina, accanto alla nonna, alla luce di una candela, con la borsa dell’acqua calda tra le mani. Ci guardavamo attonite, senza parlare, senza capire esattamente che cosa fosse accaduto. Non avevamo più voglia di giocare “alle signore” come facevamo sempre e da allora la nonna non mi raccontò più le favole. Qualche mese dopo si ammalò e dovemmo ricoverarla in casa di cura. Non si andava a scuola e non si poteva uscire di casa, anche se l’inondazione non era arrivata da noi, perché abitavamo in periferia, al nono piano di un palazzone, centoottanta scalini da salire a piedi. Mancava la luce, mancava l’acqua; per lavarci usavamo quella piovana raccolta sull’attico della vicina.
Ricordo gli stivali di gomma dei miei genitori: rossi quelli della mamma Leda, marroni quelli del babbo Giulio. Uscivano la mattina per andare a spalare il fango in centro, nell’attività commerciale che il babbo aveva aperto da appena sette mesi, impiegandovi tutte le sue risorse materiali e fisiche. Rientravano a tarda sera, esausti e sporchi di melma che macchiava i vestiti in maniera indelebile. Ci portavano una tanica d’acqua, una bottiglia di latte e qualcosa da mangiare. Non ricordo che cosa mangiavamo. Non ci raccontavano niente a me e alla nonna Jole, forse per non spaventarci, ma nei loro volti era stampato uno sgomento muto, incredulo. Un giorno venne lo zio Cesare da Roma e anche nel suo viso riconobbi un’espressione insolita, scura, sconcertata.
Ricordo bene il mio pianto dirotto, inconsolabile, quando la mattina il babbo e la mamma uscivano di casa per raggiungere i luoghi del disastro (non so in che modo ci arrivassero). Le mie grida disperate fino a togliermi il fiato perché volevo andare con loro per vedere, per aiutarli. Mi dicevano che non era possibile, ero troppo piccola. Restavamo sole, in attesa che tornassero. Le giornate erano tristissime, interminabili e le vivevamo in continua apprensione per loro. Non potevo vedere le amichette e il fidanzatino, mi sentivo come imprigionata. Un pomeriggio, dietro le mie sollecitazioni, malgrado la nonna Jole avesse difficoltà a camminare, decidemmo di avventurarci e scendemmo per vedere se la pizzicheria era aperta per comprare qualcosa. Ci tenevamo strette per la mano, facendo attenzione perché la strada sembrava sterrata. Per risalire fu un’impresa ed ebbi molta paura per la nonna.
Non saprei dire quanto tempo tutto ciò sia durato, sicuramente molto, prima di riavere l’energia elettrica e ancora di più per l’acqua, che non si poteva bere, però mi divertivo con il rubinetto della damigiana. Finalmente mi portarono a vedere la città: sembrava che le strade non avessero più l’asfalto, erano come incrostate di una melma scura impastata di nafta. Sui muri delle case la riga nera dove era arrivato il livello dell’inondazione, che in alcuni punti era incredibilmente alto. E poi l’odore acre, terribile, che arrivava in gola e che per tanti anni continuò ad emanare dagli scantinati. Rividi il locale, ripulito ma vuoto, il pavimento sprofondato. Non avevo mai visto il babbo piangere. Sentii un brivido gelido trapassarmi il cuore. Solo allora capii che era successo qualcosa di immensamente grave. Qualcosa che sconvolse la nostra vita, come quella di tutti i fiorentini, di quanti persero tutto, alcuni persino la vita stessa. Ho sentito tante volte ripetere da mia mamma che “per fortuna” quella mattina la macchina non era partita.
Successivamente, forse nel tentativo di rimuovere il trauma, si evitò di parlare dell’alluvione, le cui conseguenze cambiarono il corso della nostra esistenza, costringendoci ad un totale sradicamento e ad una sopravvivenza avventurosa. Neanche a scuola se ne è mai parlato. Sono state poi le foto, le immagini televisive, impressionanti, le testimonianze che diluite nel tempo, ci hanno dato le dimensioni reali della tragedia.
Accanto ai cronisti, ai reporters, al fortunoso lavoro del quotidiano La Nazione, una voce importante è stata quella degli artisti fiorentini, alcuni dei quali ebbero gli studi alluvionati. Coinvolti in prima persona, si sentirono in dovere di documentare l’immane disastro che aveva colpito la loro amata città. A cominciare da Guido Borgianni, che di newyorkese non aveva niente, essendo giunto a Firenze all’età di pochi mesi. Il suo era stato un amore a prima vista, intenso e passionale, che lo portava a disegnare e a dipingere tra la gente, nelle strade, nelle piazze, sul lungarno, nei giardini pubblici, alle Cascine. Lui che aveva lo studio a due passi dal Ponte Vecchio, si rese subito conto della piena minacciosa che cresceva a vista d’occhio sotto il diluvio. Come inviato sul campo, incurante del pericolo che correva, si precipitò in riva all’Arno, purtroppo non per raffigurarne lo scorrere placido sotto i ponti immerso in un tramonto rosso fuoco, ma per ritrarlo poche ore prima che rompesse gli argini. Seguirono altre opere, con cui volle stringersi ancora una volta al cuore la sua Firenze ferita, come aveva fatto un ventennio prima, in altre orribili circostanze, all’epoca dei bombardamenti.
Anche Rodolfo Marma era solito manifestare il suo “eterno amore” per Firenze dipingendo lo scorrere della vita popolare nelle piazze, nei mercatini, nei vicoli, esaltando la bellezza solare e limpida dei monumenti, come la freschezza aulente di certi scorci suggestivi. Il centro storico, che percorreva di buon mattino in bicicletta, le stradine attorno a S. Croce dove sapeva trovare spunti di inedita poesia, gli angoli sconosciuti eppure pieni di storia e di vissuto, le monachine con le scolarette a passeggio in S. Spirito. Tutto questo non c’era più. Era un ammasso di melma e di detriti che gli spezzava il cuore, ma che volle fissare sulla tela, in un commosso abbraccio.
Sarebbe lungo l’elenco dei Maestri del ‘900 che hanno voluto testimoniare la loro vicinanza alla città e alla popolazione in una tragedia che oltre alle persone e alle cose aveva colpito l’arte. E che magari hanno avuto un ruolo attivo nella rinascita. Da Pietro Parigi a Gino Terreni, da Pietro Annigoni a Enzo Faraoni, da Renzo Grazzini a Luciano Guarnieri, a Folco Cianfanelli e al ricordo recente del figlio Filippo, allora bambino.
Un cinquantesimo anniversario commemorativo, per ricordare chi dalla furia dell’Arno ha visto spazzare via tutto ciò che aveva, chi vi ha perso la vita, gli affetti. Per dire grazie a quanti si sono mobilitati con ogni mezzo e prodigati senza sosta per portare soccorso, viveri e quant’altro, a coloro che sono accorsi da ogni parte del mondo per strappare dal fango il patrimonio artistico e culturale, poi faticosamente riportato allo splendore dal lungo lavoro di mani sapienti: e il pensiero va subito ad un grandissimo della pittura e del restauro, Vittorio Granchi.
Dalle istituzioni alle personalità – in testa il Sindaco Bargellini – a semplici cittadini che hanno amato ed aiutato Firenze a risorgere. E per non dimenticare, facendo conoscere una pagina di cronaca e di storia a chi non c’era.
Perché non abbia mai a ripetersi niente del genere, con l’auspicio che questa ricorrenza rappresenti anche un monito ed uno stimolo per impegnarsi a difendere la città da ogni assalto, compreso quello dell’inciviltà e del degrado che oggi troppo spesso la offende.
Perché le cose preziose sono fragili e devono essere protette e rispettate.
Gabriella Gentilini
Dedicato con affetto
alla memoria dei miei Genitori
www.centrostudigentilini.it
Firenze, ottobre 2016
Parzialmente pubblicato nel catalogo della mostra Accademia delle Arti del Disegno, novembre 2016.